Santa Maria dell' Anima: la cappella Fugger





Giulio Romano, Pala Fugger, S. Maria dell'Anima, Roma

LA CHIESA E LA CONFRATERNITA DI SANTA MARIA DELL’ANIMA
Breve storia dell’edificio.
La chiesa di S. Maria dell’Anima ha origine da un ospizio per pellegrini sorto dopo il giubileo del 1350 in seguito ad una donazione della guardia papale Johannes Peter da Dordrecht e di sua moglie Katerina all’Urbe[1] per la salute dell’anima e del corpo dei loro connazionali con la clausola, vigente ancora oggi, che l’Abate fosse di lingua tedesca.
Secondo lo Schmidlin[2] anche l’ospedale di S.Andrea, fondato a fine ‘300 per assistere i poveri di nazionalità tedesca e poi trasformato in ricovero di donne, si sarebbe fuso con l’ospizio dei due coniugi Dordrecht. Nel 1399 l’opera ricevette l’approvazione papale da parte di Bonifacio IX. Il nome della chiesa deriva da un antica immagine dalla Vergine rinvenuta in loco che sedeva tra due anime di devoti ai lati, a ricordo di essa attualmente, all’interno del timpano triangolare sopra il portale della chiesa, si può ammirare un rilievo che raffigura appunto la Madonna invocata da due anime del Purgatorio. Il gruppo scultoreo, tradizionalmente attribuito ad Andrea Sansovino, è in realtà una copia più tarda da ascriversi al Lorenzetto, forse coadiuvato da Raffaello da Montelupo.
I primi ampliamenti dell’edificio, pagati quasi per intero da Koenraad da Hal del Brabante, sembrano risalire agli anni ‘30 del XV secolo ad opera di un architetto senese, forse Pietro Pisanelli, che gli diede aspetto gotico. Il cantiere fu chiuso nel 1446.
Nel 1499, in previsione del Giubileo, si decise la sua ricostruzione in forme più imponenti, per iniziativa di tre cittadini germanici piuttosto influenti: il cerimoniere pontificio Giovanni Burcardo, il notaio di Rota Sander (che nel 1508 completò la sua casa accanto alla chiesa per poi legarla al complesso di assistenza dei suoi connazionali teutonici) e Wilhelm van Enckenvoirt, poi cardinale molto vicino a papa Adriano VI. Il loro progetto, commissionato pare ad un architetto tedesco, era maestoso forse in maniera eccessiva tanto che fu abbandonato per qualcosa di più modesto e facilmente realizzabile. I provveditori dell’ospizio fecero ricorso al consiglio del Bramante, di Andrea Sansovino e di Giuliano da Sangallo. I lavori procedettero velocemente, mentre si costruiva il nuovo, veniva demolito il vecchio, tanto che nel 1510 veniva consacrato l’altare maggiore , l’anno successivo su progetto del Sangallo veniva iniziata la facciata e tra il 1516 ed il 1518 si pose fine ai lavori con il completamento del campanile.
La chiesa fu pesantemente devastata dalle scorribande dei soldati protestanti durante il Sacco e fu ancora danneggiata durante la breve avventura della Repubblica Romana. Completamente restaurata nel 1842-44 e 1874-75 è oggi la Chiesa Nazionale dei Cattolici di Lingua Tedesca.
La confraternita nei secoli.
- Secondo i vecchi statuti dell’Anima, che resteranno validi sino alla fine del XVII secolo, la guida della confraternita e dell’ospizio è nelle mani di quattro “Provvisori”. Chi diveniva membro doveva pagare una certa somma come donazione ed assicurare un lascito ereditario al momento della morte. I pellegrini, sia uomini che donne, ricevevano gratis per tre o quattro giorni vitto ed alloggio[3].-
Nel 1398-99 Bonifacio IX assieme all’approvazione papale assegna all’associazione lo statuto di confraternita col nome di “S. Maria dell’Anima”, concede inoltre con la Bolla del 9 novembre 1398 speciali indulgenze a quanti avessero contribuito all’erezione dell’ospizio, in particolare in seguito ai larghi sussidi[4] concessi da Teodorico (o Dietrich) di Nyem, primo rettore dell’ospedale, notaio pontificio ad Avignone, poi abbreviatore e scrittore alla Cancelleria al seguito di Gregorio XI.
Con due documenti del maggio e luglio 1406 Innocenzo VII pone la confraternita sotto la protezione papale rendendola esente da obblighi verso altre istituzioni comunali ed ecclesiastiche, dotandola inoltre del diritto di seppellire nei propri terreni. Con la bolla del 4 dicembre 1444 Eugenio IV riconosce alla chiesa il diritto di somministrare i sacramenti ai connazionali come se fosse una vera parrocchia: S. Maria dell’Anima diviene ufficialmente la chiesa dei sudditi dell’Impero. Come bisogna spiegarsi questo immediato successo, visto che con lo Scisma d’Occidente la situazione della Chiesa in Europa ed a Roma in particolare fosse tutt’altro che rosea e considerando la contemporanea presenza della ben più antica “Arciconfraternita di S. Maria della Pietà in Camposanto dei Teutonici e dei Fiamminghi” che a parte gli oneri assistenziali per i pellegrini, svolgeva pressappoco le stesse funzioni? La soluzione può risiedere nel fatto che dopo le donazioni del 1348 da parte dei coniugi Dordrecht la confraternita subì una fusione con la “Confratria Alamannorum” nata e sviluppatasi ad Avignone. Questa confraternita aveva per la maggior parte soci natii della “Nederduitsland”, ovvero quella parte dell’Impero che comprendeva le terre delle attuali Olanda, Belgio e Basso - Reno tedesco. Quando il Papa nel 1377 torna a Roma è accompagnato tra gli altri da alcuni membri della “Confratria Alamannorum”, che poi si istalla in città restando fedele alla fazione romana, come d’altronde i capitoli delle cattedrali “olandesi” in patria. Dunque la confraternita assume fin dagli inizi una conformazione poco tedesca (se si pensa alla Germania attuale). Il contingente olandese all’Anima diviene ancora più importante nel XVI secolo, con la comparsa del protestantesimo in Germania e naturalmente col fatto che è luogo di sepoltura del cardinale Enckenvoirt e soprattutto di Adriano VI, che nel suo pur breve pontificato concesse numerosi privilegi e fu largo di offerte in denaro. Una conferma di questo controllo olandese dell’istituzione ci è data da una stima dei membri risalente al 1585-1696 la quale riferisce di 55 soci belgi, 41 provenienti dall’Olanda e solo 6 dalle terre di Westfalia[5].
Nel 1599, dopo la morte di Filippo II, quando si stava affermando l’indipendenza olandese, furono espulsi i fiamminghi e dopo la pace di Rijswijk anche gli Alsaziani francesi; finisce definitivamente il periodo di egemonia della nazione neerlandese all’interno dell’istituzione. Questa prova di forza del potere imperiale è solo un esempio della situazione che vedeva un controllo diretto sempre maggiore degli Asburgo sull’Istituto. Già dalla fine dal XV secolo infatti la Confraternita sorta come unione nazionale della razza tedesca comincia la sua trasformazione, pur con qualche resistenza[6], in Istituto Statale Imperiale prima e Austriaco poi. La chiesa come abbiamo visto nel ‘400 era già molto popolare e ben messa finanziariamente, tra il 1448 ed il 1514 vi vengono consacrati ben 59 Vescovi. Il complesso gotico era tutt’altro che vecchio e fatiscente, ma nel frattempo le altre nazioni avevano costruito anch’esse chiese ed ospizi per i loro pellegrini ben più moderne ed in linea con lo stile più in voga, ovvero la razionale regolarità dell’architettura rinascimentale. L’11 aprile 1500 con la benedizione dell’Arcivescovo è posta la prima pietra del nuovo edificio, in nome e con l’importante “sponsorizzazione” dell’Imperatore Massimiliano I. Per oltre quattro secoli la confraternita vivrà sotto l’ombra degli Imperatori, legandosi fortemente agli Asburgo al momento dell’elezione al trono imperiale di Ferdinando I nel 1556 e restando sotto il controllo nominale austriaco fino al crollo dell’Impero nel 1918. Un editto imperiale del 1824 limitava la partecipazione alla vita dell’ente ai soli sudditi austriaci, di qualunque lingua e nazionalità, anche se pare probabile che queste limitazioni fossero già precedentemente in atto. La conformazione sopranazionale dei territori asburgici permise comunque la massiccia presenza di sudditi di lingua non tedesca come ungheresi e soprattutto italiani; è interessante notare come nel XIX secolo, quando parte del nord Italia era sotto il controllo di Vienna, la confraternita fosse per la maggior parte animata da Italiani di quelle terre che erano cittadini austriaci, tanto che durante una visita nel 1819 l’Imperatore dovette constatare come nessun prete dell’Anima parlasse tedesco. Nel 1859 Pio IX con Lettera Apostolica (Preclara Instituta, 15 marzo), approva un riordino della confraternita che desse nuovamente spazio a Tedeschi, Belgi e Olandesi, ovvero che fosse aperta a tutti coloro che appartenessero alla Confederazione Germanica, indipendentemente dalla nazionalità. L’Imperatore mantenne comunque, in collaborazione con la Curia, il diritto di nominare il rettore. Nel 1906 l’Anima diviene ufficialmente chiesa parrocchiale dei Tedeschi a Roma.
In un Breve Apostolico del 1961 Papa Giovanni XXIII riorganizza nuovamente la guida della confraternita. Ai vescovi austriaci compete, con la collaborazione di quelli tedeschi, la nomina del rettore. All’Arcivescovo di Colonia è invece affidato l’onere di nominare i pastori della parrocchia tedesca in Roma, con la chiesa dell’Anima come chiesa-parrocchiale. Un cattolico di nazionalità olandese dovrà essere membro dell’amministrazione, in pratica questo posto e’ riservato al rettore del Collegio Olandese.
La chiesa[7].
Lasciandosi alle spalle piazza Navona e girando a destra, dopo aver percorso la breve via di S.Agnese in Agone, ci ritroviamo in via S. Maria dell’Anima. Dopo pochi passi sulla nostra sinistra troviamo l’alta ed elegante facciata rinascimentale della chiesa omonima dei tedeschi: S. Maria dell’Anima. Il frontone del portale principale contiene la scultura della Madonna tra le anime oranti sansoviniana, al di sopra la sacra iscrizione “Templum Beatae Mariae de Anima hospitalis teutonicorum MDXIII” introduce all’ingresso. Sul fianco destro si alza il bel campanile dotato di bifore di sapore bramantesco (l’attribuzione all’architetto marchigiano è però priva di fondamento) e rivestito di maioliche verdi bianche azzurre e gialle, di tradizione gotica sono invece i pinnacoli e la cuspide conica che decorano la parte più alta.
Entrando nella chiesa si nota subito un atmosfera poco romana: l’interno è modellato sullo schema delle Hallenkirchen tedesche (in italiano “chiese a sala”), suddiviso in tre navate che hanno la stessa altezza tra di loro. In fondo il presbiterio ospita sopra l’altare maggiore la famosa pala Fugger, dipinta da Giulio Romano intorno al 1523. L’opera, probabilmente la prima realizzata dall’artista fuori dall’ambito della bottega di Raffaello, raffigura una Sacra Famiglia con i santi Giacomo, Giovanni Battista e Marco. La composizione è imponente, al centro troneggia la Madonna con il Bambino circondata dai santi e da putti che reggono una tenda, sul fondo compare un’architettura classica che ricorda criptoportici antichi. A destra il monumento sepolcrale di Papa Adriano VI (1522-1523), progettato da Baldassare Peruzzi e affidato nella realizzazione dei marmi a Michelangelo Senese e al Tribolo[8]. Adriano Florensz, figlio di un carpentiere di Utrecht, poi precettore di Carlo V, fu l’ultimo Papa non italiano prima dell’elezione di Giovanni Paolo II. Nel suo breve pontificato tentò di attuare una riforma della Curia, ponendo un freno ai fasti promossi dal suo predecessore Leone X Medici. Fermò tutti i cantieri artistici tranne la Fabbrica di S. Pietro, raffreddò i buoni rapporti che il papato aveva con umanisti e poeti, liquidò lo straordinario gruppo scultoreo del Laocoonte da pochi anni ritrovato presso la Domus Aurea come una “inutile effigie di idoli pagani”, minacciò addirittura di far reintonacare gli affreschi di Michelangelo presso la cappella Sistina, scandalizzato dalle sue nudità.
La magnifica tomba presso S.Maria dell’Anima, che egli probabilmente non avrebbe approvato per la ricchezza, fu commissionata dal cardinale van Enckenvoirt, a sua volta seppellito nella chiesa. Il suo bel monumento funerario in sobrie forme rinascimentali è attribuito a Giovanni Mangone, ma forse è opera di Michelangelo Senese e si trova a destra del portale d’ingresso.
Di fronte al monumento di Adriano VI si trova quello del principe Carlo Federico di Kleveberg, morto di vaiolo a Roma nel 1575 a soli 19 anni. L’esecuzione dell’opera (1577-79) fu affidata dal segretario del principe a Pierre de la Motte, Nicolas Mostaert ed Egidio della Riviere.
Ai lati delle navate vi sono otto cappelle, 4 per parte, che salgono sino all’altezza della volta, altra caratteristica tipica della chiesa a sala tedesca. La navata destra ospita la cappella di S. Bennone (morto nel 1106 e molto venerato presso l’Anima, fu fatto santo nel 1523 proprio da papa Adriano VI), con una pittura (1618) di Carlo Saraceni che rappresenta il santo nell’atto di ricevere da un pescatore le chiavi della cattedrale di Meissen, trovate nel ventre di un pesce. Le chiavi erano state gettate dallo stesso Bennone nel fiume per impedire che lo scomunicato imperatore Enrico IV potesse entrare nella chiesa. Accanto si trova la cappella di S. Anna con una Sacra Famiglia di Giacinto Gimignani ed affreschi attribuiti a G. F. Grimaldi. A destra la tomba del cardinal Sluse (+ 1687),dotata di un busto di Ercole Ferrata, a sinistra il monumeto funebre di Giovanni Savenier (+ 1638), protonotaio apostolico e principale finanziatore degli arredi della cappella. Al di sopra il suo busto di mano di A. Algardi e quello di suo cugino G. de Castro (+ 1659). La terza cappella della navata di destra, consacrata originariamente a S. Marco e alla Madonna dell’Anima, è comunemente detta Fugger, essendo stata finanziata dalla famosa famiglia di banchieri di Augusta, noti ai più per aver finanziato l’elezione ad Imperatore di Carlo V d’Asburgo. Le pareti sono affrescate con storie della Vita della Vergine di mano di Girolamo Siciolante da Sermoneta (discussa la datazione, da collocarsi intorno al 1550 o più probabilmente tra il 1560 ed il 1563). Sull’altare vi è un crocifisso di G. B. Montano (1584) che sostituisce la pala di Giulio Romano, spostata sull’altare principale a fine Seicento. Nella quarta cappella è posta una Pietà iniziata dal Lorenzetto e forse terminata da Nanni di Baccio Bigio. E’ interessante notare come sia una cosciente ripetizione, pur con alcune varianti, della Pietà michelangiolesca di S. Pietro, lo stesso crocifisso collocato dietro è dello stesso tipo di quello che si trovava in origine dietro la Pietà di Michelangelo in Vaticano.
Sulla navata sinistra da notarsi la tomba di Ferdinando van der Eyden (+ 1630) di mano del Duquesnoy. La prima cappella, come quella di S. Bennone di fronte, ospita una pala del Saraceni (1618) in cui è rappresentato il Martirio di S. Lamberto, al di sopra scene della vita del santo di Jan Miel; la cappella accanto, dedicata a S. Giovanni Nepomuceno è decorata da pitture di Ludovico Seitz (che è anche l’autore dei Santi sulla volta della navata mediana) di fine Ottocento, con a destra il martirio del santo, al centro la confessione della regina Giovanna ed a sinistra la minaccia di re Venceslao.
La cappella di S. Barbara, voluta da van Enckenvoirt, è affrescata dal brabantino Michael Coxcie durante i primi anni del suo soggiorno romano[9], egli fu tra i primi pittori fiamminghi a saper lavorare a buon fresco. Dipinse nella cappella scene di vita della santa ed una Gloria dei Santi sulla calotta, oltre che la pala d’altare in ardesia raffigurante S. Babara, la Trinità e il committente Card. Van Enckenvoirt. La quarta cappella, detta del Margravio, fu commissionata da Johann Albrecht, Margravio di Brandeburgo[10] della Casa degli Hohenzollern ed è decorata da meravigliosi affreschi manieristi (1530-1550) di mano di Francesco Salviati[11]. Giustamente celebre è, in particolare, la Deposizione di Cristo sull’altare, in cui è anche presente un ritratto post-mortem del committente. Sopra l’altare è raffigurata la Resurrezione e nella calotta la Pentecoste. Ai lati un notevole impianto decorativo con grottesche, stucchi, medaglioni e raffigurazioni di santi (S.Maurizio e S. Alberto Magno). Presso il pilastro di fronte alla cappella vi è il sepolcro di van der Eynde (+ 1630), opera del Duquesnoy.
E’ anche possibile entrare nella chiesa passando per l’ingresso dell’Ospizio Germanico, al nr. 20 di piazza S. Maria della Pace. Dopo aver superato il portone ci si ritrova in un bel cortile rinascimentale pieno di marmi antichi, attraversandolo si entra in sagrestia dove vale la pena di soffermarsi per ammirare nella volta l’Assunta, attribuita a G. F. Romanelli (1636) ed un raro esempio romano di gruppo ligneo di scuola tedesca del XV secolo, esso rappresenta la Madonna con S. Anna ed il Bambino.
LA CAPPELLA FUGGER
La cappella si presenta come uno spazio semicircolare coperto da una volta a calotta che ha la stessa altezza della navata centrale, come sottolineato dalla continuità della trabeazione. Al centro una finestra a ogiva è parzialmente coperta da un tabernacolo di metà Ottocento e da un Crocifisso (1584), opera attribuita a G.B. Montano. Ai lati gli affreschi con le Scene della vita della Vergine dello Siciolante.
La committenza
Il committente, Jakob Fugger, principale finanziatore dell’elezione imperiale di Carlo V nel 1519 fu considerato per molti anni il sommo capo economico del mondo, il secolo che intercorre tra la sua nascita nel 1459 e la morte (1560) del suo successore alla guida dell’Impresa famigliare, il nipote Anton corrisponde al periodo d’oro della famiglia Fugger e la decorazione della loro cappella romana è solo una delle numerose opere d’arte che essi si fecero fare in giro per l’Europa in particolare ad Augusta e Venezia[12]. Basti ricordare La Festa del Rosario commissionata ad Albrecht Dürer[13] per la chiesa di S.Bartolomeo dei Tedeschi (ora a Praga), la Fuggerei ad Augusta, un intero quartiere per i cittadini cattolici più poveri del luogo o ancora le vetrate ad Anversa ed il palazzo rinascimentale sempre ad Augusta.
Gli affari della famiglia si basavano essenzialmente sull’estrazione e commercio dei metalli (argento, rame, zinco) in regime di monopolio, in concessione dalle autorità imperiali che erano indebitate con il loro Banco. Jakob, che prima di entrare nella società di famiglia, era stato studente di teologia, conosceva bene Roma e rafforzò presto la sede romana dell’impresa di famiglia e nel 1508 riuscì ad ottenere da Giulio II la gestione della Zecca Papale[14], soppiantando l’egemonia fiorentina. Presso il banco romano lavorò da giovane Anton, suo nipote, che poi prese le redini dell’intera ditta famigliare alla morte dello zio nel 1526. Il potere finanziario dei Fugger cominciò il suo declino con la dichiarazione di bancarotta di re Filippo II di Spagna, che doveva enormi somme alla famiglia, la società fu dichiarata fallita però solo nel 1646, anche se ormai il volume degli affari era molto diminuito e i membri della famiglia erano da tempo dediti alla vita di nobili feudatari votati alla letteratura, alle arti ed alle scienze. La sede romana dell’impresa chiuse invece i battenti nel 1527, pochi mesi dopo il Sacco. Durante le frenetiche settimane successive all’entrata delle truppe tedesche, la ditta accettò volentieri il deposito di ogni genere di prezioso portatogli dagli occupanti, i quali potevano poi ritirare il valore in valuta corrente presso le filiali del Banco nel nord Europa. Allo stesso tempo, con lo stesso argento del bottino dei soldati, vennero coniate a credito le monete che il Papa in prigionia, Clemente VII, dovette pagare come riscatto. Il Sacco fu dunque l’ultimo grande affare dei Fugger a Roma, con il ritorno all’ordine si preferì chiudere la sede per non alimentare scandali.
La Pala di Giulio Romano
Fu la morte del fratello maggiore Markus (+ 1478), canonico di Augsburg, e quella del nipote, Markus Fugger (+ 1511), protonotario apostolico, a riportare Jakob il Ricco a Roma. Fece seppellire i due parenti nella tomba
marmorea della cappella di famiglia[15] in S. Maria dell’Anima e commissionò all’allievo prediletto di Raffaello - Giulio Romano - la grande pala ora sull’altare principale della chiesa. Lasciò una donazione alla chiesa[16] e le spese per la pala d’altare, compose egli stesso l’epitaffio per il fratello e ripartì.
La pala d’altare che ora campeggia sul presbiterio dell’altare principale della chiesa fu dunque realizzata per questa cappella e solo in seguito, dopo essere stata danneggiata dalle alluvioni del Tevere nel 1598 e nel 1682, fu spostata e restaurata per poi essere collocata dove si trova ancora oggi.
“Fece il medesimo Giulio a Iacopo Fuccheri tedesco, per una cappella che è in S. Maria dell’Anima in Roma, una bellissima tavola a olio, nella quale è la Nostra Donna, S. Anna, S. Giuseppo, San Iacopo, S. Giovanni putto a ginocchioni e S. Marco Evangelista che ha un leone a’ piedi”[17].
La realizzazione della pala fu affidata a Giulio Romano (G. Pippi, Roma 1499 - Mantova 1560) ed è tuttora una delle opere più celebri del periodo romano del Pippi, nonché la più celebre commissione dei Fugger a Roma. Il soggetto è una Sacra Conversazione. La Madonna col Bambino al centro, accompagnata da tre angeli sopra di lei, “conversa” con S. Marco e S. Giuseppe, sulla sinistra S. Giacomo in adorazione e S. Giovannino. L’ambientazione è di chiaro gusto classico e si svolge in un loggiato circolare con volta a botte che ricorda modelli classici resi celebri da Vitruvio, Vasari parla di “casamento che gira ad uso di teatro”[18]. Sullo sfondo da una porticina esce o si affaccia una vecchia che fila, accanto ad essa una chioccia ed i suoi pulcini ravvivano il passaggio creando una specie di scena di genere. L’esecuzione è da collocare attorno al 1523, prima della ripresa dei lavori della sala di Costantino, per affinità stilistiche con la Lapidazione di S. Stefano e con alcune figure dipinte in Vaticano[19].
Molto si è scritto sull’iconografia di questa pala che sin dal ‘500 fu giustamente celebre e più volte riprodotta[20], venendo considerata da allora sino ad oggi uno squisito esempio di “Maniera Romana”, dunque della generazione susseguente ai grandi maestri. Una maniera che fino alla fine del secolo sarà fondamentale nello sviluppo del gusto artistico in Italia e soprattutto nel resto del continente europeo. L’ampio successo del modello Pala Fugger in Italia ed in Europa e la fama in generale dell’artista lo confermano.
Per spiegare correttamente l’opera è necessario suddividere la scena: in primo piano si respira l’ atmosfera fortemente sacrale di una sacra conversazione in divenire, tre putti sono colti nell’azione di proteggere l’avvenimento con un drappo che però rappresentato diagonalmente[21]dal pittore scopre la scena di fondo, vero motivo di genere e seconda ambientazione dell’opera.
Protagonista della pala è chiaramente la Sacra Famiglia, posta ai piedi di una scalinata dove la Madonna siede su dei blocchi di marmo che formano un trono improvvisato. Bisogna tenere a mente che la chiesa e la confraternita di S. Maria dell’Anima portano questo nome in onore della Madonna delle Anime, raffigurata sul portale in una piccola scultura in cui la Madre di Dio è posta in mezzo a due anime oranti. L’opera tradizionalmente attribuita ad Andrea Sansovino è solo una copia alquanto posteriore da ascriversi al Lorenzetto[22], forse coadiuvato da Raffaello da Montelupo. E’ probabile che vi sia un rapporto tra l’opera di Giulio ed il valore religioso della Madonna delle Anime. Essa ha il ruolo di intercedere per i defunti e nella Pala Fugger, evidenziando anche la gestualità, i santi Marco e soprattutto Giacomo - patrono del committente Jakob - hanno un ruolo che può coincidere con quello di oranti che chiedono intercessione alla Madonna per i defunti tumulati nella cappella ovvero i due Markus. Per quanto la teoria che i due santi abbiano le sembianze dei fratelli Fugger risulti piuttosto fantasiosa o comunque non dimostrabile, non può essere casuale che essi siano omonimi di Jakob e Markus. “Vi fece oltre ciò un casamento che gira ad uso di teatro in tondo, con alcune statue così belle e bene accomodate, che non si può veder meglio. E fra le altre vi è una femina che filando guarda una sua chioccia ed alcuni pulcini, che non può esser cosa più naturale”[23]. Così il Vasari descrive la scena di fondo. Frederick Hartt[24] considera improbabile che le architetture sul retro siano di un teatro, come propone Vasari, riconosce nei capitelli tuscanici, nelle nicchie e nel suggerito giardino il cortile loggiato di un palazzo o di una villa. Propone inoltre che le rovine e lo spazio stesso derivino dalla libera reinterpretazione di alcuni ambienti dei Mercati Traianei.
Howard Burn[25] evidenzia come nella Lapidazione di S. Stefano, l’opera forse più stilisticamente vicina a questa, spicchi l’esedra degli stessi Mercati sullo sfondo. Ciò conferma il noto interesse di Giulio ed in generale di tutta la bottega di Raffaello per le misure architettoniche antiche[26]. Altro indizio, ben più decisivo, è un disegno del codice di Fossombrone[27], da ascriversi alla cerchia di Giulio, che rappresenta l’emiciclo della Grande Esedra dei Mercati Traianei sorprendentemente simile alla soluzione della pala. La somiglianza risulta ancora più evidente se si confronta il disegno del codice con il disegno preparatorio per la Pala Fugger conservato agli Uffizi, che senza la scena di genere evidenzia nella sua completezza le architetture. Nell’opera finale però Giulio pone una vecchia che fila con chioccia e pulcini, personaggi che oltre al pregio artistico (“che non può esser cosa più naturale”[28]) forse alludono all’identità della committenza ovvero Jakob Fugger, la scena è probabilmente la rappresentazione simbolica della corporazione dei Tessitori di Augusta, di cui i Fugger facevano parte[29].
Come già ricordato il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi conserva un disegno, che considerato precedentemente copia della pala di S. Maria dell’Anima è stato riconosciuto negli ultimi anni[30] come un disegno preparatorio per il dipinto. Vi sono alcune piccole differenze con l’opera di pittura[31] ma assieme alla mancanza della scena di genere e la posizione di alcune figure, quel che risalta è la diversa postura del leone simbolo di S. Marco[32].
La motivazione di questa sensibile differenza è ben nota: il terzo inferiore della pala fu pesantemente danneggiato dall’inondazione del Tevere del 1598 e restaurato da Carlo Saraceni, già al servizio della Confraternita dell’Anima per due pale tuttora presenti nelle prime cappelle a destra e sinistra del portale d’ingresso. Il pittore veneziano modificò completamente il corpo dell’animale e gli girò la testa verso la figura di S. Marco. Un ulteriore danneggiamento portò al successivo restauro di Maratta del 1682 ed al trasferimento della pala in sacrestia rompendo l’unità della cappella, l’opera di Giulio è adesso posta sull’altare principale della chiesa ed è in quella circostanza che fu sostituita con un tabernacolo di marmo ed un crocifisso che si dice scolpito da Giovanni Battista Montano nel 1584.[33]
Abbiamo detto della fortuna della Pala Fugger e delle numerose copie[34], è ora necessario trattare la fortuna che la composizione degli elementi dell’opera ha avuto negli anni immediatamente successivi all’esecuzione. La tradizione di comporre i paesaggi con rovine dei gloriosi tempi dell’Impero è sempre stata presente nell’arte italiana ma uno studio accurato e critico delle antichità è figlio della cultura rinascimentale. Raffaello fu, come è noto, responsabile della salvaguardia delle antichità romane sotto il pontificato di Leone X [35]. Aggiunse inoltre, in alcune delle sue opere - accanto ai protagonisti santi e pagani delle scene rappresentate - fregi, capitelli ed architetture classiche ad ornamento. Questa nuova “consuetudine” è ben presente anche negli allievi dell’Urbinate, in particolare in Giulio e la Pala Fugger ne è uno degli esempi più riusciti, tanto che egli incarnò anche in questo il ruolo di fedele continuatore della maniera del maestro.
A sua volta Giulio fu oggetto di ammirazione ed esempio per artisti più giovani, a questo riguardo è interessante citare un articolo di Philippe Verdier[36] su una Madonna con Bambino e S. Giovannino proprietà della Walters Art Gallery di Baltimora ma ben conosciuta in Italia grazie ad una versione a rovescio presente alla Galleria Borghese e per lungo tempo attribuita a Giulio Romano[37]. La scena di fondo ricorda molto quella della Pala Fugger: un esedra in rovina, con una scala a doppia rampa concava e convessa, occupa la parte alta del dipinto, dall’aedicula centrale escono tre piccole figure, più avanti S. Giuseppe scende la rampa come a voler raggiungere la scena principale. Simile è infatti sia l’utilizzo di un architettura classica sullo sfondo sia il fatto che l’esedra antica sia a sua volta popolata da piccole figure in una scena “di genere” non dissimile da quella della pala del Pippi. La scelta di rappresentare un edificio antico come l’esedra della tavola di Baltimora, pur arricchita dalla doppia rampa forse bramantesca, rende plausibile che essa sia un personale sviluppo del modello di Giulio[38]. Essa è probabilmente un richiamo a uno dei numerosi ninfei presenti tra le rovine romane. Le statue nelle nicchie non hanno nulla a che vedere con il Belvedere del Bramante, piuttosto possono ricordare le nicchie dei giardini di Villa Madama concepiti dal Sanzio. Anche in questo caso esse non sono per nulla dissimili ai marmi presenti nelle nicchie della pala di S. Maria dell’Anima. Lo sfondo dell’opera è dunque un “capriccio” e come per la pala di Giulio è uno tra i primi affascinanti esempi del genere che tanta fortuna avrà in seguito nella storia dell’arte del paesaggio[39]. Come già detto la Pala Fugger è da datarsi introno al 1523 (anche se il disegno preparatorio potrebbe essere sensibilmente precedente) dunque poco prima o poco dopo la morte di Adriano VI e la salita al trono papale di Clemente VII.
Gli affreschi di Girolamo Siciolante da Sermoneta
“Similmente nella chiesa di Santa Maria de Anima, chiesa della nazione tedesca, dipinse a fresco tutta la cappella de ‘ Fuccheri: dove Giulio Romano già fece la tavola, con istorie grandi della Vita di Nostra Donna”[40].
Così il Vasari descrive la decorazione a fresco della Cappella Fugger eseguita da Girolamo Siciolante da Sermoneta (Sermoneta 1521 - Roma 1575) collocandola nel tempo tra le pale di S. Spirito in Sassia (1564) e i lavori a S. Tommaso de’ Cenci (1565) dunque negli anni ’60 del Cinquecento.
Gli affreschi raccontano alcuni episodi della Vita della Vergine, più precisamente la Nascita della Vergine sulla parete di sinistra in basso, la Presentazione della Vergine al Tempio sul muro di destra in basso; a metà muro sulla fascia orizzontale l’Annunciazione; in alto a sinistra la Visitazione, in alto a destra la Presentazione di Gesù al Tempio; sulla calotta della volta l’Assunzione della Vergine[41].
Numerosi gli studi preparatori perlopiù su carta azzurra, essi rappresentano “l’insieme più consistente di studi superstiti eseguiti da Siciolante per una sola committenza”[42]. Sin dall’inizio del secolo scorso il ciclo era stato datato agli anni cinquanta (1550-1555) in seguito alla scoperta di un documento da parte dello Schmidlin[43] datato Aprile 1549 in cui il canonico della chiesa di S. Maria dell’Anima Johann Hominis ricordava ad Anton Fugger, capofamiglia nipote di Jakob il Ricco, che la decorazione della cappella non era ancora stata completata. La lettera con ogni probabilità, visto il tono piuttosto perentorio[44], non doveva esser stata la prima ad esortare la ripresa dei lavori. Joseph Schmidlin, il quale pubblicò il documento, dedusse che in conseguenza a questa richiesta Anton commissionò immediatamente il ciclo allo Siciolante. I più importanti studiosi contemporanei del pittore di Sermoneta, Berenice Davidson e John Bewter Hunter hanno ormai sconfessato questa datazione seguiti dalla maggior parte dei critici, spostando l’esecuzione in avanti di una decina d’anni e collocando il cantiere tra il 1560 ed il 1563[45]. Stilisticamente il ciclo è stato avvicinato ad opere datate agli anni ’60 come i lavori in S. Tommaso de’ Cenci e gli affreschi della Donazione di Pipino e dell’Adorazione dei Pastori nella Sala Regia in Vaticano, quindi non lontano dalla datazione tradizionale del Vasari[46]. Forti similitudini sono da ravvisarsi anche con la parete affrescata in S. Luigi dei Francesi nel 1547, tanto nella convincente organizzazione spaziale, quanto nei massicci corpi di alcune figure e nelle poderose vesti che “negano le leggi di gravità ed anatomia”[47].
La datazione degli affreschi di S. Maria dell’Anima all’inizio degli anni sessanta, tarda rispetto al 1550 proposto dallo Schmidlin[48], è motivata da Hunter, oltre che stilisticamente, anche storicamente[49]: tra gli anni ’40 e ’50 Casa Fugger attraversava un periodo di dissesti finanziari dovuti alle insolvenze dei debiti contratti da Carlo V e dalle sue continue richieste di denaro per finanziare la guerra contro la Francia, Anton stesso si vedeva costretto a rinnovare il prestito perché una disfatta dell’Asburgo avrebbe reso ancor più difficile il pagamento dei debiti. E’ chiaro che le difficoltà della banca Fugger non influivano particolarmente sui fondi personali di Anton ma la precarietà della situazione non era certo un incentivo ad investire nell’arte. La situazione romana era inoltre piuttosto instabile: già dopo il 1527 il volume degli affari dei Fugger a Roma si era ridotto notevolmente, la filiale della banca venne chiusa, sul trono papale sedeva inoltre Papa Paolo IV Carafa, acerrimo nemico dell’Asburgo, tanto da aver mosso guerra alla cristianissima Spagna. Intorno alla fine del decennio la situazione cominciava a stabilizzarsi ma Anton il 14 settembre 1560 passava a miglior vita. Il suo successore, come da testamento fu individuato nel nipote Hans Jakob, vista anche la giovane età dei suoi figli diretti. Hans Jakob era uno stimato collezionista d’arte, uomo colto amante delle arti liberali ma poco dotato per la finanza tanto che dopo la sua bancarotta personale nel 1563 fu immediatamente sostituito alla guida di Casa Fugger. La datazione del ciclo proposta da Hunter coincide con gli anni di “reggenza” di Hans Jakob ed il personaggio stesso sembra coincidere con la figura di un generoso committente. Fu lui infatti con ogni probabilità a affidare l’incarico di completare la decorazione della cappella a Siciolante da Sermoneta col probabile intento di glorificare la memoria dello zio Anton, il cui ritratto è stato individuato all’estrema destra della Presentazione della Vergine al Tempio[50]. Figlio di Raymund[51], anch’egli appassionato collezionista d’arte[52], Hans Jakob ebbe una ampia e scrupolosa istruzione universitaria in lingue classiche e moderne, giurisprudenza ed economia vagando tra le università di mezza Europa, Italia compresa naturalmente - in particolare Padova e Bologna - evidenziando sin da giovane notevoli capacità letterarie ed una naturale predisposizione alla vita sociale di alto rango[53]. Fu autore di una storia della sua famiglia - tra il 1541 ed il 1545 - e di una storia degli Asburgo nel 1555.
Alla morte del padre nel 1535 assunse un ruolo direttivo in casa Fugger, fu spedito dallo zio Anton ad Anversa poi in giro per l’Europa a curare gli interessi della famiglia. Prima di tornare ad Augusta fu a servizio di Ferdinando I, lavorò a corte come tutore per i figli, compreso il giovane Massimiliano futuro Imperatore. In queste sue peregrinazioni conobbe tra gli altri Jacopo Strada, curiosa figura di architetto, antiquario e mercante d’arte con il quale strinse una lungo rapporto di affari ed amicizia tanto che quest’ultimo, dal 1544, divenne il curatore delle collezioni dei Fugger[54]. La carriera politica di Hans Jakob sembrava inarrestabile, sia il Cardinal Granvelle che l’Imperatore Carlo furono suoi ospiti ad Augusta, dove intanto era tornato nel 1540. Nel 1549 fu nominato consigliere imperiale e in quegl’anni fece un'altra conoscenza che si rivelerà fondamentale nel futuro: divenne amico del Duca Alberto Grande Elettore di Baviera tanto che fu padrino di alcuni dei 21 figli del Fugger! Nel 1560, come già ricordato, lo zio Anton morì ed egli prese in mano la Casa Fugger lasciando le occupazioni per le quali era certamente più portato: la politica e le arti liberali. La sua personale bancarotta del 1563 fu risolta solo per l’intervento dell’influente e ricco amico Alberto di Baviera, egli coprì i debiti a patto che Hans Jakob lasciasse gli affari di famiglia ai nipoti per seguirlo in Baviera col ruolo di responsabile delle collezioni di libri e artificialia di corte. Il ruolo era per lui certamente più consono, la sua personale biblioteca ad Augusta era celeberrima e con se portò colui che l’aveva aiutato a renderla tale: Jacopo Strada. L’architetto italiano produsse dei disegni per l’Antiquarium di Alberto V a Monaco ponendo le basi per la Wunderkammer e ravvivando l’interesse nei paesi di lingua tedesca per collezioni di arte figurativa, arte libraria, numismatica e artificialia che sfocerà nelle squisito collezionismo Asburgo di fine Cinquecento.
Conclusioni
La pagine di questo elaborato, con un excursus iniziale sulla storia della chiesa e della confraternita di S. Maria dell’Anima, hanno l’obiettivo di stimolare l’interesse di un eventuale visitatore che entri nella chiesa per motivi di devozione e preghiera o anche solo per curiosità intellettuale, attratto dalle bellezze artistiche ed architettoniche. Lo scorrere delle pagine prosegue con una guida dei manufatti breve ed essenziale utile ad orientarsi e ad apprezzare gli arredi, le cappelle e le pitture che si mostrano nel loro splendore anche grazie al nuovo interesse ed ai conseguenti lavori di ammodernamento degli spazi, certamente conseguenza, almeno in parte, della recente elezione di Papa Benedetto XVI.
L’attenzione di chi scrive si rivolge poi ad una cappella in particolare, analizzando approfonditamente ogni elemento utile alla conoscenza della sua storia come l’impianto decorativo ed iconografico, ma anche introducendo i personaggi che vi gravitarono attorno come i committenti, gli artisti e coloro che vi hanno trovato sepoltura. Accompagnando questo lavoro con i necessari riferimenti bibliografici si è cercato di proporre un analisi completa ed aggiornata del luogo che sia un poco modello per lo studio e la comprensione di tutte le altre cappelle della chiesa. Tale lavoro se attuato porterebbe ad avere un visione ampia e sfaccettata della chiesa, divenendo un ottimo punto di partenza per successivi studi e ricerche sui diversi elementi di interesse dell’edificio.
Gli avvenimenti che hanno coinvolto la cappella Fugger hanno suggerito un altro importante protagonista oltre a quelli già citati, un protagonista che ha accompagnato l’evolversi non solo di questa chiesa ma di tutta la città: il Tevere. La chiesa di S. Maria dell’Anima soffrì spesso dei disagi portati dal fiume: le alluvioni e le inondazioni, risolte solo nell’Ottocento con la costruzione degli argini, colpirono infatti più volte questi luoghi ed in particolare la cappella in questione, che a causa della sua posizione e per un problema di pendenza subì i danni maggiori; si racconta che l’acqua, nelle situazioni più gravi, sia entrata addirittura dalla finestra. Proprio queste emergenze naturali portarono lo spostamento della Sacra Conversazione di Giulio Romano. Essa fu dapprima portata in sacrestia e ridipinta in alcune sue parti, come furono ridipinte le scene in basso delgi affreschi di Siciolante che la circondavano, successivamente fu collocata sull’altare maggiore. Le pitture furono dunque salvate ma si perse l’integrità decorativa della cappella ed alcuni elementi pittorici, coperti dalle nuove vernici. Il bisogno di un nuovo restauro e di una accurata analisi delle parti in vista e sottostanti ha trovato risposta nel 2007, grazie all’interessamento della camera dei Deputati ed alle sapienti mani di Valeria Merlini e Daniela Storti che hanno intrapreso il restauro della Pala d’altare di Giulio Romano. Esso ha permesso il risanamento delle parti più critiche nonché la ripulitura e la reintegrazione dello strato pittorico, portando alla luce un inaspettata brillantezza di colori[55]. Una rinascita dei tinte che non è andata ad intaccare il forte contrasto chiaroscurale caratteristico dell’opera ma che anzi ne evidenzia ancor più le caratteristiche. Il chiaroscuro, anzi soprattutto lo scuro era infatti una peculiarità dell’opera sin dalla sua realizzazione e questo si evince dai paralleli stilistici con altre opere di Giulio Romano contemporanee a questa[56] ma è ricordato anche da Vasari che la vide pochi anni dopo.
“E se anco questa tavola non fusse stata tanto tinta di nero, onde è diventata scurissima, certo sarebbe stata molto migliore. Ma questo nero fa perdere o smarrire la maggior parte delle fatiche che vi sono dentro; conciò sia che il nero, ancora che sia verniciato, fa perdere il buono, avendo in sé sempre dell’alido, o sia carbone o avorio abruciato o nero di fumo o carta arsa”[57].
Vasari ci offre dunque una interessante osservazione di natura tecnica: i materiali per scurire, per le loro caratteristiche intrinseche, hanno presto abbuiato lo strato pittorico, forse più di quanto l’artista stesso si aspettasse. La considerazione è stata confermata dalle restauratrici in una interessante intervista rilasciata pochi mesi prima del completamento del restauro[58]. In questo colloquio si racconta con una certa dovizia di particolari le diverse fasi degli interventi sull’opera. Si è ricorso ad esempio ad una indagine diagnostica per capire meglio le tecniche esecutive usando la spettrofotometria XRF, che ha permesso di rilevare il disegno preparatorio (che è emerso essere ad incisione diretta) ed anche le varie fasi dei restauri precedenti[59]. Quasi due mesi di lavoro si sono resi necessari solo per risanamento del supporto ligneo che era in pessime condizioni, a causa di ciò le difficoltà sono iniziate sin dallo spostamento della Pala dall’altare maggiore al laboratorio in via Uffici del Vicario, dove si è poi usata la stimolante metodologia del restauro aperto[60]. Questa considerazione risponde alle domande sul perché la pala dopo i restauri seicenteschi non fu mai ricollocata nel suo luogo originario. Il dipinto di Giulio Romano era già al tempo considerata l’opera di maggior pregio della chiesa[61] e la cappella era la zona più a rischio in caso di alluvione del Tevere. La pala inoltre, nonostante i restauri della parte pittorica, a causa della lunga immersione nell’acqua del fiume, era danneggiata anche nei suoi assi di pioppo verticali che la costituiscono e nelle traverse che ne completano la struttura, tanto che si è potuto rilevare che erano state già sostituite in passato.
Se difficoltosa è stata la sua rimozione per il recente restauro, lo stesso doveva certamente essere in caso si volesse trasportarla nei secoli precedenti. La sua collocazione presso l’altare principale della chiesa dunque è certamente legata a motivi di conservazione, non credo però che questa sia l’unica causa. Innanzitutto un’opera di tale pregio era ben consona per il luogo più sacro ed importante della chiesa[62], la sua presenza in quel luogo negli anni ha aggiunto poi una altro motivo: la consuetudine, l’abitudine a vederla issata al centro del presbiterio, simbolo della chiesa per motivi artistici e di culto.
La Sacra Conversazione è infatti un riadattamento rinascimentale della Madonna delle Anime che era oggetto di particolare devozione per la chiesa ed i suoi frequentatori. Intanto ciò risulta evidente dal nome della chiesa, durante la sua costruzione quattrocentesca prese proprio questa denominazione da una immagine della Madonna che intercedeva per le anime del Purgatorio trovata durante il cantiere; fu considerato un segno miracoloso, commemorato con il marmo sulla facciata che ne è la copia e che ricorda l’accadimento.
L’immagine è poi sullo stesso asse longitudinale della pala sull’altare e sopra di essa, in una vetrata[63] rivolta verso l’altare che adorna la controfacciata, è nuovamente rappresentata, in trono e con le anime supplicanti ai lati. Essa scorta dunque il visitatore sin dall’ingresso e sino all’altare. Il ruolo della Madonna delle Anime, madre di Dio che intercede
per le anime del Purgatorio, è d’altronde essenziale per una chiesa ed una confraternita che ospitava i pellegrini, che venivano a Roma per avere perdonati i propri peccati ma anche per emendare quelli dei propri cari già morti. La chiesa è inoltre luogo di sepoltura per numerosi tedeschi che vivevano a Roma (con i relativi monumenti funebri, molti di gran pregio) o che spesso venivano nella Città Santa proprio per vivere gli ultimi anni ed attendere la morte[64]. Questo ruolo è ulteriormente confermato dalla cappella di S. Maria dell’Anima, alla destra dell’altare maggiore, dedicata ai caduti austriaci e tedeschi della Prima Guerra Mondiale in territorio italiano.
Il culto mariano in genere è fortemente presente in tutta la chiesa, ciò non è certamente una rarità per le chiese di culto cattolico, ma è un elemento che conferma come la Vergine sia il centro della devozione e della preghiera in questa chiesa. Sulla facciata, al centro, sotto l’immagine di Maria scolpita la scritta “speciosa facta es” [65] dà il benvenuto al fedele; sull’altare principale, sopra la pala, si legge “Virgo concipiet et pariet filium”, la celebre frase tratta dalla profezia di Isaia (VII, 14) che annuncia la nascita del Cristo da una vergine.
Altri esempi si possono ravvisare riesaminando “orizzontalmente” le iconografie delle cappelle laterali. La cappella di S. Anna ha sulla calotta un affresco raffigurante la Vergine e S. Anna in Cielo, di fronte, quella dedicata a S. Giovanni Nepomuceno mostra sempre sulla calotta absidale una Vergine in trono; scene simili, con Maria che osserva dall’alto Cielo gli uomini. Nella cappella Fugger, in alto, è rappresentata l’Ascensione della Vergine ed in parallelo, di fronte, la Trasfigurazione di Cristo del Coxcie presso la cappella di S. Barbara; la Madre dunque ascende al cielo come fece il Figlio, essa infatti è già redenta e sin macula. La cappella del Margravio è affrescata da una Pentecoste con la Vergine al centro ed ha come pala d’altare una Deposizione dalla Croce, con una bellissima Madonna dal manto bianco mentre nell’ultima cappella sulla destra, di fronte, campeggia la Pietà del Lorenzetto, squisita variazione di quella michelangiolesca; Deposizione e Pietà sono scene consecutive della Compassione della Vergine. Le immagini di Maria sono dunque presenti in gran numero e organizzate secondo uno schema tipologico probabilmente non casuale, essa è mediatrice di salvezza per gli uomini, avvocata potente, speranza certa dei peccatori; è mostrata nel dolore umano di madre e nel trionfo dei cieli. La sua umanità la rende vicina agli uomini ma essa, di sola sostanza umana eppure libera dal peccato, consola e difende le anime dei suoi figli: Santa Maria dell’Anima. Sarebbe necessaria una lettura iconologica più profonda per comprendere il ruolo delle immagini mariane nella chiesa in questione ma questo non è il luogo e chi scrive non è qualificato per entrare più in profondità, ci sono però indizi sufficienti per confermare l’importanza che il culto di Maria riveste negli aspetti decorativi del luogo, con particolare riguardo all’ufficio di mediatrice per le anime. Lo scopo di questa disamina è infatti unicamente di mostrare l’importanza iconografica dell’immagine di Vergine tra le anime del Purgatorio, rappresentata da Giulio Romano nella sua celebre pala e dunque consona ad adornare l’altare maggiore di questa chiesa.
Eppure si è forse persa un’occasione nel dicembre 2007 quando la pala dopo il lungo e delicato restauro è stata ricollocata sul presbiterio e non nella cappella per la quale nacque. Ciò avrebbe dato la possibilità non solo di fare un tuffo nel passato ed ammirare la cappella nel suo aspetto cinquecentesco, vederla nel luogo per la quale era stata concepita sarebbe significato anche poterne osservare meglio i colori e le figure, troppo piccole per essere apprezzate opportunamente sull’altare principale. L’opera era stata infatti concepita per essere osservata da vicino, non da diversi metri come accade attualmente[66], si sarebbe inoltre ricomposta anche l’unità iconografica e devozionale della cappella, con le scene della Vita della Vergine ai lati che accompagnavano la Sacra Conversazione, secondo lo schema tradizionale che vuole immagini di iconografia narrativa ai lati e teofanie sull’altare[67].
Questa possibilità, di difficile realizzazione prima del restauro per le cattive condizioni del supporto era certamente possibile dopo l’intervento conservativo. Si è forse tenuto conto che essa non sarebbe entrata nell’attuale tabernacolo che ospita il Crocifisso del Montano, ma essa poteva essere facilmente posizionata poco più avanti senza intaccarne la fruizione. Più probabilmente si è voluto riporla nel presbiterio per ridare ad esso la sua immagine più preziosa e per ricomporre un’altra unità iconografica e strutturale considerata più importante, quella di tutta la chiesa, costruita ed adornata nei secoli sotto la protezione della Madonna delle Anime e tuttora ad essa strettamente legata, dal portale d’ingresso sino all’altare.
Come se tutto girasse attorno alla Vergine, essa accoglie il pellegrino e lo spinge alla devozione nelle sue meravigliose forme rinascimentali sull’altare maggiore, colori e forme di Giulio Romano.
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[1] La donazione di un lotto di tre case per l’ospizio, l’ospedale e l’oratorio pare risalire al 1386.
[2] Schmidlin Joseph, Geschichte der deutschen Nationalkirche in Rom : S. Maria dell'Anima, Wien, Freiburg im Breisgau, 1906.
[3] Fiorani Luigi, Storiografia e archivi delle confraternite romane. Ricerche per la storia religiosa in Roma, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1985, pp.175-413. Cfr. Anche F. Noack (Das Deutchum in Rom seit dem Ausgang des Mittelalters, Neudruck der Ausgabe, Stuttgart, 1927) per una approfondita dismina degli Statuti della confraternita.
[4] Alla morte di Teodorico la confraternita riceve 7 edifici in Roma.
[5] Per maggiori informazioni sulla comunità olandese presso la Confraternita cfr. Brom G., De Nederlandisch-Duitsche stichting der Anima, in “De Katholiek” 132 (1907), pp. 286-306, 358-380, 446-468; Muskens M. P. M., Op bedevaart, voor studie, voor overleg in Rome, een geshiedenis een uitnodiging, Palombi, Roma, 1988.
[6] Sisto IV ad esempio nel 1483 vieta l’apposizione dello stemma imperiale sugli edifici di proprietà dell’ente.
[7] Cfr. in particolare: Autori vari, Le Chiese di Roma a cura dell’Istituto di Studi Romani, XII, s.a.; Hudal, Aloys, S. Maria dell'Anima: die Deutsche Nationalkirche in Rom, Herder, Roma, 1928; Lohninger Joseph, S. Maria dell'Anima: die deutsche Nationalkirche in Rom, Selbstverlag der Verfassers, Roma, 1909; Schmidlin Joseph, Geschichte der deutschen Nationalkirche in Rom : S. Maria dell'Anima, Wien, Freiburg im Breisgau, 1906.
[8] Vedi Frommel, 1967-1968, p. 134, 119-121.
[9] Il suo soggiorno a Roma è da collocarsi tra il 1530 circa ed il 1539. I lavori presso la chiesa dell’Anima sono la prima notizia biografica certa su di lui. Per approfondire la figura di Coxcie vedi R. De Smedt, Michiel Coxcie, pictor regis (1499-1592), Internationaal colloquium, Mechelen, 5-6 juni 1992 consultabile in “Handelingen van de Koninkrijke Hring voor Oudheudkunde, Letteren en Kunst van Mechelen”, zesennegentigste boekdeel, II, 1992, Sint Franciscus Drukkerij, Mechelen 1993.
[10] La scelta della cappella avvenne attraverso l’interessamento di W. Van Enckenvoirt, provveditore dell’Anima. L’incarico di decorare ad affresco fu dato a Francesco Salviati dietro interessamento di Quirinus Galler, rappresentante di Alberto in Curia e di Johann Lemeken, sacerdote di Ratzeburg, entrambi residenti a Roma per qualche tempo.
[11] Cfr. Alessandro Nova, Santa Maria dell’Anima. Cappella dei Margravi in Francesco Salviati. Affreschi romani, a cura di Anna Coliva, Mondadori, Milano, 1998, pp. 42-48.
[12] Per uno studio aggiornato sulle committenze Fugger ad Augusta e Venezia vedi Bushart, Venzia ed Augusta: architettura e scultura del Cinquecento in Aikem-Brown, Il Rinascimento a Venezia, 1999, pp. 160-172
[13] Per gli ultimi studi sull’opera vedi il recente Hermann Fiore Pristina, Durer e l’Italia, Electa, Milano, 2007, in particolare pp. 248-249.
[14] Vedi M. Monaco, La Zecca vecchia in Banchiera detta palazzo del Banco di S. Spirito, Officina Poligrafica Laziale, Roma, 1962
[15] Precedentemente dedicata a S. Nicola poi riconsacrata in onore di S. Marco con i restauri rinascimentali ed anche in conseguenza dei due parenti di Jakob seppelliti in loco.
[16] I finanziamenti furono più d’uno e pagati in diversi momenti, Will Winker (1942, p. 233) stima in questo caso la somma intorno ai 200 ducati.
[17] Vasari, volume V, 1964 (1568), pp. 273-274.
[18] Di seguito la citazione integrale del Vasari: “Fece i medesimo Giulio a Iacopo Fuccheri tedesco, per una cappella che è in S. Maria de Anima in Roma, una bellissima tavola a olio, nella quale è la Nostra Donna, S. Anna, S. Giuseppo, San Iacopo, San Giovanni putto e ginocchioni e San Marco Evangelista che ha un leone a’ piedi; il quale standosi a giacere con un libro ha i peli che vanno girando secondo c’egli è posto. Il che fu difficile e bella considerazione, senza che il medesimo leone ha corte ale sopra le spalle con penne così piumose e morbide, che non pare quasi da credere che la mano di un artefice possa cotanto imitare la natura. Vi fece oltre ciò un casamento che gira ad uso di teatro in tondo, con alcune statue così belle e bene accomodate, che non si può veder meglio. E fra l’altre vi è a femina che filando guarda una sua chioccia ed alcuni pulcini, che non può esser cosa più naturale. E sopra la nostra donna sono alcuni putti che sostengono un padiglione molto ben fatti e graziosi. E se anco questa tavola non fusse stata tanto tinta di nero, onde è diventata scurissima, certo sarebbe stata molto migliore. Ma questo nero fa perdere o smarrire la maggio parte delle fatiche che vi sono dentro; conciò sia che il nero, ancora che sia verniciato, fa perdere il buono, avendo in sé sempre dell’alido, o sia carbone o avorio bruciato o nero di fumo o carta arsa”. Vasari, 1964 (1568), volume V, p. 274.
[19] Hartt (1944, p. 77-94; 1958, p. 56-57) è tra i più decisi promotori di una datazione attorno al 1523: “in the painting of the figures the style is closer to that of the St. Stephen than to the preceding Madonnas” (1958, p.56), egli nota come sia tra le Madonne più esplicitamente manieriste di Giulio Romano, le aureole e i visi corrucciati sono pressappoco simili quelli della lapidazione di S. Stefano, lo stesso vale per le fantasie architettoniche ed il luminoso naturalismo dello sfondo. L’isolamento delle figure “in uno schermo illuminato sullo spazio buio” (1958, p.57) è già vicino agli ottagoni del soffitto nella Sala di Psiche in Palazzo Te. Sono tutti indizi che avvicinano lo stile dell’opera alla maniera del pittore corrispondente alla datazione proposta. Anche Ferino-Pagden (in Oberhuber, Gnann, 1999, scheda 215, p.300) è dello stesso avviso collocando la lavorazione sotto il pontificato di Adriano VI: “Rispetto alla Lapidazione di S. Stefano le figure appaiono più slanciate, gli arti allungati, i volti delineati in modo più delicato e i movimenti più leggeri ed aggraziati. (…) Il movimento ampio e pieno di slancio della Madonna ricorda la figura maschile in ginocchio, raffigurata in primo piano a destra nella Donazione di Costantino, dipinta nel 1524. (Oberhuber, 1999, p.300) Vedi anche Massari (1993 p.209-210) e Burns ( in Ferino-Pagden, 1989, p.236).
Johannides (1989, p. 45 nota 33) propone un avvicinamento stilistico alla Madonna Barberini, basandosi sul fatto che fosse norma utilizzare le pose di vecchi cartoni per poi modificarli nel disegno preparatorio, considera probabile che Giulio ed i suoi assistenti abbiano cominciato a lavorare sulla pala Fugger replicando la Madonna Barberini.
[20] Il grande influsso artistico prodotto dalla composizione di Giulio Romano è testimoniato da numerose copie, elencate da Ferino-Pagden (1989, p.262). E’ curioso ed indice di un certo prestigio il fatto che vi siano sia riproduzioni che mostrano l’opera com’era prima dei restauri seicenteschi, sia come è da ammirarsi allo stato attuale. Indicativa una tavola a Frascati, nella chiesa dei Cappuccini, col leone nella stessa posa del disegno preparatorio (vedi nota 168) dunque quella originale. In Repubblica ceca, a Hradic e Opary due diverse copie illustrano la Pala Fugger nel primo caso come era in origine, nel secondo come risulta attualmente (1989, p. 94, nota 84). Vedi anche Oberhuber in Autori vari 1984, pp.101-102. Sull’influsso diretto che l’opera ebbe sugli allievi: Oberhuber (Ferino-Pagden, 1989, scheda 215) afferma che l’opera servì come modello per la tavola di Raffaellino del Colle nella chiesa di S. Maria dei Servi a Sant’Angelo in Vado. Per un’acquaforte attribuita a Maria Cartaro, vedi Massari 1993, p.208-209 n.193. Non è nota a Oberhuber una replica del disegno preparatorio che, secondo Massari (1993, p.209), al Louvre è classificata come opera di Raffaellino del Colle ispirata a Giulio Romano.
Pare tra l’altro che il cartone per la Pala Fugger fosse di proprietà di Raffaellino stesso, questo quanto risulta dal testamento di Giulio (vedi Oberhuber in Ferino-Pagden, 1989, p.56, nota 109). Sulle similitudini tra Giulio e Raffaellino vedi anche Johannides, 1985, p.45, nota 33.
[21] Ferino-Pagden (1989, p.77) vi vede similitudini con la Pala Pesaro del Tiziano proprio nell’ordinamento intenzionalmente asimmetrico dello spazio.
[22] Autore anche della Pietà di stampo michelangiolesco nella terza cappella a destra.
[23] Vasari, volume V, 1964 (1568), p. 274.
[24] 1944, p. 91-93.
[25] in Ferino-Pagden, 1989, p.236.
[26] Interesse che naturalmente non era esclusivo della scuola dell’Urbinate. Hartt notando anch’egli questa somiglianza di moduli architettonici con i Mercati Traianei ricorda (1958, p.56, nota 27) come già Giuliano da Sangallo ne aveva disegnato le forme.
[27] Burns in Ferino-Pagden, 1989, p. 304. Il volume, di un anonimo cinquecentesco, proviene dalla collezione di Gherardo Cibo. I disegni sono stati riconosciuti come copie per la maggior parte indirette di schizzi di Giulio Romano. Alcuni fogli riproducono vedute utilizzate dal pittore nelle sue opere. Ad esempio la veduta di Tivoli utilizzata per la Lapidazione di S. Stefano e l’emiciclo dei Mercati Traianei per la pala Fugger.
[28] Vasari, volume V, 1964 (1568), p. 273.
[29] Una delle attività più redditizie di Casa Fugger finchè era sotto la guida di Jakob il Vecchio era difatti il commercio di stoffe con basi a Venezia ed Augusta, lentamente poi per volere di Jakob il Ricco gli interessi della famiglia si ampliarono notevolmente virando decisamente verso il mondo dell’alta finanza. Vedi Winker, 1942 pp.17, 18, 23 e Von Polnitz, 1964 per una lettura di stampo storico-economico ampia e dettagliata.
Hartt (1944, p.93, nota 93) spiega il significato della chioccia con un passo del Vangelo di Matteo (XXIII, 34) ma il parallelo appare alquanto oscuro.
[30] Ferino-Pagden, 1989, p.262; Oberhuber, 1999, p.300-301.
[31] Ad esempio nella posizione della Madonna in trono che è più spostata verso destra rispetto all’opera dipinta.
[32] Il disegno degli Uffizi rappresenta dunque un valido mezzo per immaginare la composizione e la sue qualità artistiche originarie che riveste importanza ancor maggiore se si prendono in considerazione le critiche che furono mosse nei confronti dei restauri seicenteschi, che secondo i contemporanei guastarono non poco l’opera.
Nel 1638, quando Gaspare Celio - 1967 (1638), p. 20 - descrive la cappella, annota:
“La pittura dell’altare alla destra entrando con la madonna e SS. Marco e Rocco, di Giulio Romano, e ad olio le sue collaterali a fresco, di Geronymo da Sermoneta. Quella di Giulio la guastò il fiume quando inondò, sotto Clemente VIII, e dopo non solo racconciarono il guasto, ma guastarono quello, che non aveva tocco il fiume”.
Baglione - 1995 (1642), p. 146 - nella vita del Saraceni scrive:
“fu dato a questo huomo a racconciare il quadro, o tavola di Giulio Romano nella Madonna dell’Anima, che dall’inondatione del Tevere era stato un poco offeso: ma lo ritoccò di modo, che guastallo: dove egli oprò, più di Giulio non ha apparenza: ed a tutti li professori molto dispiacque, ch’egli in opera così rara ardisse di metter si licenziosamente la mano”.
[33] Per maggiori delucidazioni vedi Hunter, 1996, p.160, nota 4. Nota è l’attività di Montano come architetto e teorico, meno quella di scultore, l’attribuzione del corcifisso al suo corpus e infatti tramandata dalla tradizione ma non suffragata da prove documentarie. Sarebbero infatti necessari studi accurati per confermare l’attribuzione e capire i motivi che portarono a collocare il crocifisso nella cappella, essendo stato esso, se di mano del Montano , necessariamente scolpito prima dello spostamento della pala di Giulio Romano. Vedi Arrigoni, Montano, in Allgemeines Lexicon, XXV, pp.82-83.
[34] Vedi nota 156.
[35] Il suo ruolo di “prefetto” delle antichità prevedeva, oltre al compito di esercitare qualche forma di tutela, anche un rilievo sistematico del palinsesto urbanistico della città antica. L’opera rimase alla fase progettuale per la morte dell’artista ma nel famoso memoriale inviato a Leone X nel 1519 (di mano di Raffaello ma corretto e rifinito dall’amico Baldassare Castiglione) è espressa chiaramente l’intenzione di procedere con il metodo del rilievo architettonico, di cui si indicano i tre elementi fondamentali: pianta, alzato e sezione.
[36] Verdier, 1983, pp. 45-58. L’articolo del Verdier ha come obiettivo mettere in luce l’origine di quel modello architettonico ed egli lo individua nel progetto iniziale del Bramante per il Belvedere Vaticano. La rampa del Belvedere fu ideata da Bramante prendendo a modello le antiche rovine del Lavacum Agrippae ed è dunque indice di un generale e continuativo interesse per lo studio e l’utilizzo dell’architettura antica nelle arti rinascimentali. Noto è difatti l’interesse del Bramante per i modelli architettonici della Roma antica. E’ curioso notare come due costruzioni in cui sono implicati i Fugger – la Zecca di S. Sprito e la chiesa di S. Maria dell’Anima - siano state attribuite dalla tradizione, pur senza controprove, all’architetto marchigiano. Vedi i capitoli dedicati a questi due edifici per maggiori informazioni sull’argomento.
[37] La tavola è citata nell’Inventario Borghese dal 1693. L’attribuzione a Giulio Romano è unanime sino al 1893 quando Adolfo Venturi propone il nome di Girolamo Siciolante. Il Voss nel 1920 lo assegna a Raffaellino de Colle. Marco Droghini (2001, pp. 49-50) colloca la tavola nell’ambito della bottega romana del Pippi ipotizzando la paternità di quest’ultimo nella composizione e nel disegno e la realizzazione finale di mano di Raffaellino del Colle nel 1523.
L’attribuzione all’artista di Borgo S. Sepolcro resta comunque solo ipotetica e priva di controprove. Vedi Sapori, 1974-1976, pp. 167-192.
[38] Ipotesi ancor più valida se la tavola di Baltimora è effettivamente stata dipinta da un artista vicino alla bottega di Raffaello. Ne è convinto anche Johannides (1985, p. 45, nota 33) che oltre a confermare le similitudini con la pala Fugger evidenzia la notevole somiglianza del Gesù Bambino di Baltimora con quello di un’altra opera del Pippi: la Madonna del Catino di Dresda.
[39] Il modello di Sacra Famiglia con rovine antiche è ulteriormente sviluppato in un opera del Primaticcio presso Hermitage di San Pietroburgo. In questa Madonna con Bambino, S. Giovannino, S. Elisabetta e S. Giuseppe o S. Zaccaria la scena si svolge all’interno di una costruzione classicheggiante simile a quella della Madonna di Baltimora. Le architetture fanno da scenografia ma solo uno scorcio dell’imponente complesso è ritratto sulla tavola. L’opera è un olio su ardesia ed è da datarsi al 1532 circa, poco prima o poco dopo l’arrivo dell’artista a Fontaineblau. La recente mostra Primaticce: Maitre de Fointembelau al Louvre nel 2005 a portato a nuovi studi su questa piccola tavola (43,5 x 31) collocando la lavorazione all’inizio degli anni quaranta in Francia. Nel motivo architettonico antico si è voluta vedere una libera trascrizione dell’anfiteatro di Nimes. Vedi Romani in Autori Vari, 2005, pp. 101-102.
[40] Vasari, volume VII, 1965 (1568), p. 453.
[41] I due riquadri in basso, La nascita della Vergine e La Presentazione della Vergine al Tempio, furono danneggiati dalle alluvioni del Tevere del 1598 e del 1682 e, come la pala Fugger, in parte ridipinti.
[42] Hunter, 1996, p.264. Più precisamente volendo stilarne una lista: Donna con bambino in braccio, Roma, Gabinetto nazionale delle Stampe e Disegni; Presentazione di Gesù Bambino al Tempio, già collezione Michel Gaud; Donna seduta con bambino, Torino, Biblioteca Reale; Apostolo in piedi, Londra, British Museum; Apostolo in ginocchio, Vienna, Albertina (già attribuito a Francabigio, poi rassegnato all’artista di Sermoneta grazie all’intervento risolutivo di Oberhuber. Davidson, 1966, p. 64, nota 47); Apostolo che cammina, Parigi, collezione privata; Vergine seduta, già a New York, collezione Geiger; Profeta, Lille, Museo Wicar. Per una lettura critica della produzione grafica di Siciolante, in particolare riguardo ai disegni relativi alla cappella Fugger, vedi Hunter, 1996, pp.264-270.
[43] Il clero di Santa Maria dell’Anima sollecita Anton Fugger a completare la cappella di famiglia: Item dominum Johannem Hominis rogarunt ut continuet solicitare quatenus Antonius Fugger velit suam cappellam dipingi facere prout spe dictam fuit; Archivio, Santa Maria dell’Anima (Decreta, F I, f. 27r), tratto da Hunter, 1985, p.249; Hunter, 1996, p. 295. Pubblicato per la prima volta in Schmidlin, 1906, pp. 242-244.
[44] Davidson, 1966, p.64.
[45] La Davidson nel 1966 proponeva similmente una datazione nella seconda metà degli anno ’60; Raffaele Bruno concorda con Hunter per l’inizio degli anni ’60 per affinità stilistiche con i lavori di S. Tommaso de’ Cenci databili al 1565, in particolare pone i lavori nel lasso di tempo tra il 1560 ed il 1563 propendendo per la commissione di Hans Jakob. (Bruno,“Girolamo”, 1974, p.250; Bruno, Girolamo Siciolante, CXXXVI, 1974, p.33-35; Hunter, 1985, p.247-251; Hunter, 1996, p.59-60; Davidson, 1966, p.64)
[46] Hunter individua similitudini nei caratteri somatici dei personaggi e nell’uso del panneggio. Le figure e l’ambiente si integrano a vicenda condividendo un rapporto geometricamente valido e funzionante, anche la tavolozza con i verdi , gli ori, i rossi delle vesti e i grigi delle architetture avviciano i due cantieri pittorici stilisticamente e quindi anche temporalmente. (Hunter, 1996, p.61) Anche la Davidson, (1966, p. 64) richiama l’attenzione alle forti similitudini con i lavori di S. Tommaso de’ Cenci.
[47] “…one can find prototypes for the massive figures of the Fugger chapel whose poderous drapery loops in abstract patterns that deny the laws of gravity and anatomy”. La Davidson (1996, p.64) si riferisce in particolare alla figura di donna inginocchiata del Battesimo di Colodoveo. Sottolinea inoltre le forti influenze di Daniele da Volterra nel disegno preparatorio per l’Assunzione della Vergine della cappella Fugger, influenze poi sensibilmente attenuatesi nel risultato finale a fresco.
[48] Vedi nota 185.
[49] Hunter, 1985, p. 257-258; Hunter, 1996, p.59-64, 158-161, 264-265, 295
[50] Vista la caratterizzazione di molti personaggi nel ciclo è inoltre probabile che non sia l’unico ritratto presente nel ciclo. Schmidlin (1906, p.244) afferma che il personaggio all’estrema destra è Anton Fugger.
[51] Che era fratello maggiore di Anton e a sua volta figlio di Georg, fratello maggiore di Jakob il Ricco.
[52] Raymund nel 1520-25 fu ritratto da Vincenzo Catena (ora a Pasadena) a Venezia e da Hans Holbein (Berlin, Staatliche Museum) intorno al 1510.
[53] Studiò e fu amico di personaggi come Alessandro Farnese, duca di Parma; Christopher Madruzzo, poi Cardinale e Governatore di Milano e Otto Truchsess von Waldberg, futuro Vescovo di Augusta.
[54] Meadow in Smith-Findlen, 2002, pp. 182-200.
[55] Si è cercato di seguire un metodo che riportasse alla luce la pittura originale dove era presente – ad esempio il piede di Maria – e mantenere le zone ridipinte dove la pittura originale non era più leggibile.
[56] Vedi il paragrafo dedicato a quest’opera.
[57] Vasari, volume V, 1964 (1568), pp. 274.
[58] Restauri e Dintorni, La Sacra Famiglia di Giulio Romano: restauro “in diretta” di Francesca Secchi in Ars et furor vedi http://www.arsetfuror.com/r4Restauri12Art1.htm
[59] Ed evidente è risultata la stratificazione di essi, si è portato alla luce anche un intervento novecentesco con la tecnica del puntinato, di mano del noto restauratore italiano Mauro Pelliccioli.
[60] Il locale, attrezzato e climatizzato, era aperto al pubblico, che poteva seguire le fasi dell’intervento.
[61] Come confermano le numerose copie. Vedi pp. XX di questo scritto.
[62] Anche se la struttura del presbiterio, con il grande coro separato dalle navate, essendo chiuso permette una osservazione del dipinto da diversi metri di distanza, limitando fortemente la sua corretta fruizione.
[63] Opera di Ludovico Seitz, 1874-1875.
[64] Ed abbiamo già visto come la Confraternita aveva le stesse funzioni di quella di S.Maria del Camposanto Teutonico, sorta proprio per questi fini.
[65] “...et suavis in deliciis tuis, sancta dei Genitrix”. Antifona di un mottetto medievale, più volte cantata e musicata (per esempio da Paolo Agostini, Claudio Monteverdi e Orazio Vecchi) nei salmi dedicati alla Vergine.
[66] La zona presbiteriale e difatti chiusa da una cancellata e non accessibile se non dietro esplicito permesso.
[67] Lo schema, valido soprattutto per le chiese intere e di antichissima tradizione, propone solitamente iconologia narrativa (storie della salvezza, passioni dei martiri, vite dei santi) nelle navate e iconografie “della presenza” (spesso Cristo-Signore e Madre di Dio ma talvolta anche martiri e santi alla presenza di Dio) sull’altare, è spesso utilizzato anche per le cappelle laterali.
[68] Spatznegger pubblica in questo testo in bibliografia l’inventario completo dell’archivio dell’Anima aggiornato al 1981.

Comments

  1. grazie, utilissimo per le mie ricerche

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